User:Andrea Talmelli
'La fantasia liberata' Andrea Talmelli (autoanalisi delle opere)
La Venezia di Hermann Hesse è rappresentata da questa leggera e suggestiva poesia Gondola, cui si ispira il brano per pianoforte dedicato ed eseguito da Rossella Spinosa. Gondola è anche un'infinità di gradazioni di luce e di oscurità, dal cielo più terso alle acque torbide della laguna, di giovinezza e della vita che se ne va verso orizzonti sconosciuti. A distanza di anni dal commento di Minardi in seguito qui riportato a proposito di ... e quell’unica strada era il nero, i colori del paesaggio veneziano sono dunque anche i colori dei sentimenti e le riflessioni venate di una malinconia sfuggente dell'anima. L'esecuzione del brano fu accompagnato da immagini e dai testi della poesia. Diverso il contesto del secondo brano, scritto quasi di getto nel settembre 2009, tutto intriso di richiami verdiani e di realismo padano; questa terra, raccontata tante volte da scrittori come Mario Soldati, che segue il Po fino al suo sfociare nel mare dove è immersa Venezia. Il brano Mentre con Verdi, dedicato a Marcello Conati, che fu anche il primo che scrisse un commento alle mie musiche tanti anni fa sui giornali di Parma, utilizza i versi di Evelina Schatz che ha partecipato all’evento del 5 ottobre 2009 e recitato infine la poesia. Ma è necessario tornare agli inizi se si vuole comprendere, con un percorso compositivo ormai lungo, anche le ragioni di una scrittura musicale riportata all’attualità e al presente.
IL BISOGNO DI COMUNICARE
“Su premesse linguistiche che si rifanno alle esperienze delle avanguardie del dopoguerra, “ la musica di Talmelli – ha scritto Renzo Cresti – possiede una forte carica immaginifica, dalla quale rimbalzano riverberi visionari che illuminano un fantasioso viaggio nel tempo/spazio, percorso realizzato grazie a una fantasia liberata”. Sono molto affezionato a questa definizione della mia musica data dal critico più di vent’anni fa. Gli sono grato soprattutto per aver messo in evidenza quella “fantasia liberata”.
Le avanguardie musicali del dopoguerra hanno imposto per lungo tempo ideologie sulla composizione che hanno spesso costretto a scrivere secondo determinati modelli e principi tagliando i ponti della comunicazione con un pubblico sempre più estraneo ed estraniato. Questo ha portato a una crisi avvertita soprattutto a partire dagli Anni ’80. Oggi io penso che i compositori abbiano più mezzi a disposizione e siano certo più liberi di comunicare con la musica anche se è difficile dominare i mezzi infiniti di una incalzante tecnologia. Viene in mente Novecento, il protagonista del film La leggenda del pianista sull’oceano, che abituato a muovere le proprie dita su 88 tasti viene colto dal panico all’apparire della città infinita, coi suoi grattacieli che si perdono all’orizzonte, e rinuncia a scendere dalla nave. Ma, anche con questi interrogativi sull’uso dei mezzi d’oggi, la domanda è comunque quella di sempre: come si fa a scrivere il “nuovo” senza cadere in formule troppo cerebrali e incomprensibili ovvero in linguaggi troppo legati alla tradizione e scontatamente banali? Io penso che ognuno di noi nel ricercare il suo modo di comporre deve anche sapere che si scrive ciò che si “è”. E dunque non dobbiamo preoccuparci più di tanto nel farci questa pur legittima domanda. Nella mia attività ho cercato di ripristinare un interesse a “comunicare” con chi ascolta, più che a sapere se andavo o no nella direzione “giusta”. La responsabilità di chi scrive per altri che ascoltano me la sottolineò una volta Angelo Campori mentre si provava un mio pezzo in Conservatorio a Parma. Sembra riconoscerlo nella sua analisi Renzo Cresti già nel titolo del suo saggio (1) e poi quando afferma: “Talmelli viaggia, in sintonia con buona parte della cultura di questi ultimi anni, verso una nuova retorica, che non rinnega affatto la razionalità, ma che capisce che ogni principio, su cui fondare il processo analitico, è “indimostrabile”, in quanto può essere dimostrato solo tagliandolo dal resto del mondo; i principi primi di ogni metodologia incorrono in un inevitabile regresso all’infinito che conduce nel campo dell’opinabile. Un conto è la ragione ragionante, un altro la ragione sensibile e viva”. Questo bisogno di “comunicare” è già presente dunque fin dalle prime composizioni, prevalentemente accademiche che vanno fino al 1977 all’interno degli studi condotti al Conservatorio Boito. Ho imparato ad amare la musica seguendo un’attitudine paterna. Mio padre Curio, negli Anni Trenta, tra le tante cose caparbiamente cercate e imparate per sfuggire al naturale destino di una famiglia contadina, c’era lo studio del violino che lo portò a guadagnarsi da vivere suonando in gruppi strumentali nelle circostanze offerte dal suo ambiente ferrarese. E imparò da suo padre Arturo anche a dividere con i fratelli quanto ricavava da queste feste musicali perché “mentre tu hai potuto studiare e andare a suonare, diceva il nonno, i tuoi fratelli erano nei campi a spigolare”. Poi la guerra travolse tutto ma la passione per la musica gli rimase tutta la vita anche se poi fece il mestiere del daziere. Non fece fatica perciò ad assecondare il mio desiderio di studiarla. Ho imparato la musica cantando nel coro parrocchiale del mio paese, Soragna. Ho avuto in Lino Rastelli il maestro ideale di pianoforte, più interessato a farmi amare lo strumento e capire i repertori, peraltro abbondantemente letti e studiati, più che a ossessionarmi con obiettivi d’esame o di professione. Ho imparato l’armonia e il contrappunto con un nobile gentiluomo ligure, modesto nel presentarsi quanto generoso con gli allievi che adorava. Dario Rossi, con il suo farfallino elegante quanto minuto come chi lo indossava, è stato un bravo e fine insegnante soprattutto amante dell’armonia di gusto francese. Ma anche i successivi insegnanti Carlo Napoli, Eugenio Furlotti e Franco Margola mi hanno dato motivo per crescere nella molteplicità di esperienze che solo personalità diverse possono dare. E Margola era anche un grande artigiano maturato nella cultura del ventennio, su cui qualche buon proposito di riconsiderazione si va oggi per fortuna sviluppando. Con questi maestri mi sono avvicinato al traguardo finale in composizione dopo il liceo classico, la laurea in Legge e il diploma in pianoforte. Sono di questo periodo soprattutto due brani pubblicati da Curci nel 1975 e nel 1978 su incoraggiamento di Jacopo Napoli, padre di Carlo, direttore del Conservatorio di Milano e in quel momento direttore di quello di Roma. Si tratta del Baccanale, un trio per flauto, clarinetto e fagotto, che nelle mani del celebre fagottista e docente (direi un vero scienziato dello strumento) Enzo Muccetti, venne preparato con grande cura per i corsi estivi di Lanciano del 1974. Ho imparato sui “legni” più in quella settimana di “lezioni” di Muccetti agli studenti esecutori del mio brano che in tutto il resto della mia esperienza. L’altro brano è la Trenodia per Salvador Allende che nasce sulle emozioni del colpo di Stato dell’11 settembre 1973 in Cile e sulle suggestioni della poesia di Raffael Alberti scritta all’indomani della tragica fine del Presidente socialista. E’ stato per me un motivo di particolare soddisfazione consegnare alla vedova di Allende, signora Ortensia, ospite a Parma anni dopo, lo spartito di questo mio brano per violoncello e pianoforte, che utilizza la forma classica su un linguaggio atonale molto efficace nella comunicazione perché poggiante su un messaggio civile e politico forte e incisivo. La poesia di Alberti è letta dal pianista concludendosi sullo strappo lacerante d’inizio affidato al violoncello. Parola e suono: ecco dunque una costante del mio lavoro nelle diverse fasi della mia esperienza. Sembra quasi che io non possa fare a meno della prima per organizzare il secondo. Che ci fosse qualche archetipo nel DNA che mi ha guidato in questa scelta fin dai primi tentativi di scrivere musica lo posso forse spiegare con l’entusiasmo giovanile in libera uscita dopo gli studi classici. Così spiego non solo Raffael Alberti della Trenodia, ma anche Lee Master della celebre raccolta di Spoon River sui cui testi scrissi nel 1974 un brano per tre recitanti, flauto, violoncello, pianoforte e percussione anch’esso eseguito ai Concerti di Lanciano. Ma è solamente nella seconda metà degli Anni Settanta con i testi di Primo Levi, Se questo è un uomo, e Pier Paolo Pasolini, Il Nini muart per coro a cappella, opera segnalata al Concorso di Arezzo nel 1981, e Versi sottili come righe di pioggia, per soprano e pianoforte, che mi misurai in lavori che non sono più di didattica applicata ma che nascevano dall’esigenza di superarla attraverso una più sistematica conoscenza dei linguaggi dell’avanguardia del secondo dopoguerra.
Sono dunque gli anni del mio diploma al Conservatorio di Parma sotto la guida di Azio Corghi di cui sono stato il primo di una lunghissima serie di diplomati. E’ a lui che devo alcune fondamentali esperienze e punti fermi che mi hanno ispirato anche oltre la dimensione compositiva in quella di responsabile di una classe di Composizione prima e di Conservatorio poi. La dedizione all’analisi come base di ricerca e conoscenza per nuove risorse a disposizione del compositore; il rispetto, in una dimensione puramente didattica, della personalità di ciascuno degli allievi, ben sapendo che ognuno deve “demiurgicamente” cercare sé stesso nello scrivere musica, non certo scimmiottando le composizioni del Maestro come invece si riscontrava spesso e a quei tempi in altre classi. Questo è stato per me Azio: un esponente di rilievo tra i compositori del Secondo Novecento e un maestro di grande fascino e intelligenza nell’aiutare ciascuno di noi - penso anche ai miei compagni Stefano Rabaglia, Angelo Iotti, Giorgio Tosi, ecc..- a trovare il proprio modo di esprimersi con la composizione. “Il Maestro, ha sempre sostenuto Corghi , deve essere come un ‘lavandino’ a disposizione in cui si possono scaricare pensieri, dubbi, incertezze, entusiasmi degli allievi per uscirne con qualche soluzione cercata e trovata per esprimere la personalità di ciascuno”.
SQEUU
Dunque Se questo è un uomo, il mio diploma affrontato con una Commissione formata da nomi di prestigio come Bruno Bettinelli, Virgilio Mortari, Piero Guarino, Gianfranco Maselli e naturalmente il mio insegnante Corghi. Un brano che di lì a poco avrà anche il riconoscimento di una Commissione del Concorso indetto dall’Accademia Ternana, 1978, presieduta da Goffredo Petrassi. Scrisse Giampaolo Minardi sulla Gazzetta di Parma all’indomani della esecuzione di questa cantata sacra per coro e orchestra, realizzata dal Conservatorio con il compianto Adolfo Tanzi direttore del coro e Fabiano Monica direttore dell’Orchestra: “composizione impegnata non soltanto per l’emergenza lancinante dei contenuti che sembrano ristabilire un sentito collegamento con alcune ormai storiche inclinazioni della nostra scuola, col Petrassi del Salmo IX e del Coro di morti e Dallapiccola dei Canti di liberazione, per fare un riferimento indicativo, ma soprattutto per la volontà ben manifestata di incarnare tale tensione civile in una lingua viva, non ancora intaccata dalla polvere delle inerte contemplazione.” E aggiunge Piero Guarino nella presentazione della cantata sacra, più volte realizzata tra il 1977 e il 1981 al Conservatorio di Parma, al Teatro Magnani di Fidenza e nella Chiesa S.S. Annunciata di Voghera: “è perciò dall’esigenza di estrema chiarezza, scaturente dall’assunto progettuale, che emerge la radice del discorso più persuasiva, in grado di assorbire e trasformare la tecne al di là delle secche in cui paiono condurci gli angosciosi interrogativi legati alla musica contemporanea. E questo senza che cedimenti o preoccupanti riflussi, anch’essi paradossalmente presenti nella musica d’oggi, debbano compromettere l’esito e l’autenticità della proposta”. Ma qui è necessario che io innesti anche il diretto rapporto che ho avuto con lo scrittore torinese riportando parte dell’intervista che su questo incontro mi ha fatto Alessandra Fontanesi di Istoreco in occasione della ripresa dell’opera trent’anni dopo a Reggio Emilia. (2)
“Poiché non sapevo a chi rivolgermi per l’utilizzo di parti del testo di Levi,
scrissi direttamente all’editore Einaudi per chiedere la liberatoria in quanto la Cantata dovevo depositarla alla Siae. Non ricevetti risposta dall’editore ma direttamente la lettera di Levi datata 2 settembre 1977 in cui mi diceva che l’editore gli aveva girato la mia e che nulla ostava da parte sua all’utilizzo dei brani che avevo scelto. Compariva anche un invito esplicito a comunicare direttamente con lui attraverso il suo indirizzo privato. Puoi immaginare come mi sentii: per me Levi era un personaggio da icona. Quindi io mi sentii incentivato, comparendo il numero di telefono sulla sua lettera lo cercai direttamente. La prima telefonata… Io ero molto emozionato, ricordo durò un quarto d’ora, lui fu gentilissimo. Ne seguì una seconda durante la quale ci accordammo per il nostro incontro torinese. Quindi andasti a Torino per incontrarlo… Nell’autunno del 1977 io andai a casa sua in Corso Re Umberto. Rivedo la scala, quella scala fatale per lui più tardi, l’ascensore e in quel momento mi venne in mente il ritorno a casa di Primo Levi descritto nelle pagine de La Tregua. Levi mi fece dono del libro autografato durante il nostro incontro. Mi ricevette nel suo studio, gli feci sentire con un piccolo registratore l’opera che avevo composto, gli raccontai come avevo impostato la cosa…”
Lui come reagì all’opera? Credo ne fosse felice, mi disse che era affascinato dall’opera in quanto atto creativo, soprattutto dal fatto che il suo libro mi avesse spinto a creare questa composizione. Poi fu anche un po’ restio nell’esporsi: credo volesse sapere con chi aveva a che fare, per non lasciare che uno sprovveduto – come potevo essere io all’epoca – utilizzasse il suo scritto in modo non corretto. Era comunque un uomo un po’ ritroso ma credo che gli abbia fatto davvero piacere incontrarci. Soprattutto concordò poi sul buon proposito che mi aveva spinto a realizzare la mia opera. Io mi spinsi oltre: gli chiesi anche se fosse stato disponibile in seguito a partecipare a un incontro pubblico, anche a scopo didattico, in occasione di celebrazioni particolari, per ricordare quegli eventi che lo avevano duramente colpito. Gli chiesi insomma se voleva essere pubblicamente presente a una delle rappresentazioni musicali e fosse disposto a intervenire con una testimonianza. Lui si dimostrò disponibile e mi disse di tenerci in contatto.
L’incontro terminò con questa promessa di risentirvi? Non solo; ci fu un altro momento importante di questo incontro con Primo Levi, quando parlammo del presente. Ricordo che io citavo continuamente il passato del suo libro, la sua esperienza in lager, mentre lui riportava le lancette nel presente. Non solo il tempo declinato al presente, anche il suo pessimismo mi colpì. Ci sono alcune parole che mi sono rimaste impresse. “La storia si ripete e non insegna niente all’uomo” e si riferiva alla quotidianità del 1977. Mi disse che era ancor più sconvolto dal presente che dal passato e dal timore che le vittime diventassero carnefici riferendosi esplicitamente, ma in modo delicato, al conflitto in Medio Oriente, senza schierarsi apertamente ma facendomi capire che le possibilità dell’essere umano di apprendere dal proprio passato erano definitivamente scemate.”
Se questo è un uomo utilizza come materiale di base una serie di dodici suoni che a ben guardare è divisa in due sezioni ognuna delle quali di derivazione esatonale. Le due scale esatonali hanno al centro, tra il sesto e settimo suono, l’elemento modulativo semitonale permutato rispetto il tradizionale svolgimento della nota sensibile. Un secondo intervallo semitonale che ci riaggancia al rapporto sensibile-tonica potrà riscontrasi poi tra l’ultimo suono della serie fondamentale e il primo suono dell’eventuale sua ripetizione. Ma il metodo schonberghiano della dodecafonia, con tutti i suoi aspetti di rigore tecnico, è applicato solo nel quarto episodio della cantata, nel canone perpetuo per soli archi Die drei Leute vom Labor. Questo canone divide la prima parte, comprendente i titoli di Levi: Il viaggio, Ka-Be, Le nostre notti, che utilizzano frammenti in più lingue estratti dal libro, dall’ultima, Storia di dieci giorni, che utilizza invece versi biblici nella lingua universale del latino. E la rigorosa struttura del canone dodecafonico, come ha ricordato Daniela Iotti nel recensire la ripresa del brano al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia, “intesse un contrappunto a tre parti in cui il trattamento dei soggetti musicali rimanda simbolicamente allo snaturamento della dimensione lavorativa vissuta dai deportati nei campi”. Nelle altre parti la serie costituisce un materiale di base per successive rielaborazioni che si piegano più all’esigenza “speculativa” proposta dal programma formale e dalle suggestioni del testo utilizzato che da astratte obbedienze ad accademico strutturalismo. In altri termini, sono i contenuti a guidare il percorso compositivo più che gli schemi. Esigenza comunicativa che non sfugge Ad Aldo Bertone che sull’Avvenire di Voghera scrisse nel 1981 come il brano “pur inserendosi nelle ricerche di linguaggio delle più agguerrite avanguardie, riesce a recuperare una immediatezza espressiva ed una volontà di comunicazione lontanissima da quella supervalutazione del “negativo” che ha relegato le ultime generazioni di compositori in un ghetto dorato, ma sul piano della comprensione del pubblico, angusto”. Alcune idee guida della cantata appaiono in vesti diverse nel corso della composizione. In particolare due, il tema iniziale, diafano che riecheggia nel paesaggio desolante e nel cielo grigio del freddo inverno del ‘44, affidato al flauto e l’elemento ritmico, una sequenza di nove impulsi organizzata su una successione 3+2+4, di colore scuro, affidata inizialmente ai contrabbassi e via via coinvolgente le altre sezioni d’orchestra, che richiama l’idea del treno su cui viaggiavano i deportati in Germania. Queste due idee rimbalzeranno anni dopo in un altro brano scritto sul tema della Memoria: Al Cipresso cresciuto su quei binari della memoria (2009) su lettere di deportati italiani e Morirono tirando dadi d’amore nel silenzio (2005) su testi di Aleardi, Borghesi e Quasimodo, brano dedicato ai Fratelli Cervi, il brano si inserisce nel filone da me mai abbandonato dell’impegno civile che spiego anche perché “io penso che ogni tanto dovremmo ripassare da Auschwitz per aprire gli occhi, e dovremmo ripassare anche la Storia, per tenerli ben aperti”. (3) Ma gli Anni Settanta si concludono con un altro fortunato interesse compositivo che mi perseguiterà per tutta la vita: quello della teoria filosofica del klinamen. E gli Anni Ottanta, mentre clonavo uno dopo l’altro gli atomi dei miei klinamen, quasi fossero studi scientifici della teoria antica, avvenne anche un fatto nuovo, l’incontro con la poesia di Evelina Schatz. Ma un passo indietro devo pur farlo soprattutto per l’importanza che sul fare compositivo ebbe allora il tema della notazione musicale. Certo, anche questo è frutto di un momento magico vissuto nel clima delle Avanguardie e che solo con l’avvento della notazione informatica, perderà parte della sua radicale innovazione sul linguaggio musicale.
“Nelle partiture di Talmelli, scrive ancora Renzo Cresti (4) spesso troviamo una spiegazione della ricca simbologia grafico/sonora che viene utilizzata: è questo un tratto tipico delle pagine di ricerca: si veda il secondo dei klinamen che contiene anche alcune piccole parti di alea controllata, soprattutto legate a un ritmo ad libitum. Assai interessante è la presenza delle acciaccature che, pur inglobate nella struttura generale sono atopiche rispetto al dispiegarsi del costrutto, si sottraggono al luogo dell’articolazione consequenziale e gli fanno assumere un perimetro strano, leggermente sviato rispetto al progetto e al suo divenire”.
Dunque: dai klinamen di Epicuro ai versi di Evelina Schatz, un viaggio musicale tra filosofia e poesia.
IL RAPPORTO CON LA FILOSOFIA
Il mio Professore di Filosofia del Liceo Classico di Fidenza un giorno ci disse che in fondo i due filosofi antichi Parmenide ed Eraclito dicevano la stessa cosa. Ma come? “Nessuno entrerà mai nello stesso fiume” pensava Eraclito, perché “tutto scorre, nulla permane”. E invece per Parmenide era illusorio il movimento, tutte le cose sono ricondotte a un Ente immobile, immutabile, unico, eterno. Come si può sostenere che in fondo dicevano la stessa cosa? Già con A Parmenide per flauto solo, una delle prime composizioni giovanili, scritta nel 1976, avevo inaugurato questo mio interesse per la filosofia antica. L’anno successivo, insieme ad Avvento per pianoforte, dedicato all’attesa di mia figlia Francesca e alla maternità di mia moglie, ho affrontato il mio primo Klinamen, per fagotto e doppio complesso d’archi, disposti a formare un semicerchio con al centro i due contrabbassi a legare i due complessi. Ancora oggi sono alle prese con questo titolo (quasi una ossessione!) che ho posto a ben sette diversi brani; un’insistenza che incuriosisce il musicologo Andrea Parisini nel recensire l’opera: ” Si tratta di brani unificati da una tematica di ricerca che da anni sta a cuore al compositore emiliano: il rapporto necessità-casualità che presiede alla creazione artistica (rapporto variamente declinabile nei termini di determinato-indeterminato, ordine-caos, struttura-alea ecc.) e che in Talmelli ha trovato individuazione nell’immagine epicurea di klinamen, termine che non a caso dà il titolo a una lunga serie di opere e che letteralmente sta a indicare la deviazione che subiscono gli atomi nel loro movimento perpendicolare ed uniforme in virtù della quale essi si incontrano per formare le cose della natura”. Curiosità che diventa motivo di tesi di laurea per lo studente polacco Robert Gorgon dell’Accademia di Bydgoszcz (5). Ma la cosa più stupefacente per me è che il klinamen elettronico pubblicato su cd dalle edizioni Idyllium di Milano, non è altro che una sovrapposizione di tre brani diversi con pochissimi ritocchi di mixaggio. Insomma : esso stesso, quasi un …klinamen scaturito dal gioco di sovrapposizione su tre tracce audio delle registrazioni dei tre diversi lavori. Sono io che mi stupii con gioia nel constatare all’ascolto che nasceva una nuova opera “non pensata”. Ancora Parisini consolida questa mia osservazione quando afferma che “Talmelli ha tenuto a sottolineare l’immanenza di un concetto, quello di klinamen appunto, che si esprime non in quanto tale, cioè come idea filosofica che come dall’alto scenda ad organizzare la materia sonora, ma al contrario come principio vitale della musica stessa nel suo farsi qui e ora, in una corporeità che costantemente aspira a farsi ascoltare, dunque a comunicare. Nella dolorosa consapevolezza del rapporto storicamente interrottosi fra Nuova Musica e pubblico, nonché in quella degli oggettivi limiti della percezione sensoriale circa i sottili meccanismi che presiedono al formarsi della composizione (tali da rendere impossibile distinguere al solo ascolto ciò che è pianificato da ciò che è frutto del caso), Talmelli ha scelto di giocare, come dire, a carte scoperte, ponendo la musica al centro di un rapporto molteplice con le altre dimensioni della creatività – la parola e l’immagine – intese come campo pressoché infinito di possibilità.” Ma la cosa cui tengo maggiormente a sottolineare nell’affrontare la teoria del klinamen è che le particelle che chiamiamo atomi nel loro moto nello spazio subiscono una deviazione casuale dalle loro orbite e incontrando altri atomi formano le cose della natura. Attenzione, abbiamo detto una deviazione . ..casuale? Proprio così! Allora, mi domando: l’ordine delle cose nasce dal caso? Il prevedibile e il miracoloso sono forse due facce della stessa medaglia? E forse… ordine e caso, è anche questo che accade quando scrivo la mia musica….? Queste le domande che mi facevo pensando dunque anche ai problemi di linguaggio della nuova composizione. Si pensi ad esempio ai due personaggi più imponenti e contrastanti nel secondo Dopoguerra: Karlheinz Stockhausen e John Cage, l’uno a rappresentare lo strutturalismo rigoroso l’altro il gioco aleatorio. Spesso notavo che dal punto di vista percettivo un brano fondato sul suono rigorosamente organizzato non si distingue da un altro concepito come gioco casuale del “materiale” sonoro che sta alla base della composizione. Come il klinamen il gesto compositivo è dunque imprevedibile, e questo “stona” con il meccanicismo più “rigoroso”. Ordine e caos dunque a me sembrano entrambi necessari e complementari in natura come la “fantasia liberata” nelle infinite possibilità di scelta del compositore, in ogni istante del suo lavoro organizzativo. Fatto è che il percorso compositivo prevede un tracciato persuasivo, l’incontro atomistico nello spazio e la formazione delle cose della natura; dal suono-atomo primordiale, indagato in tutte le sue componenti timbriche ai costrutti melodici e ritmici, dall’evento minimale alla policronia organizzata. “Viene in mente Ionisation di Edgar Varèse, disse Guido Salvetti (6), dove più o meno si dicono le stesse cose. La materia viene disaggregata e riaggregata continuamente, ma qui c’è una filosofia antica che lo sostiene”. Di rimando Renzo Cresti sostenne che “la composizione si assimila all’indagine scientifica, come nel ciclo dei klinamen (1977-1982) pezzi che possiedono una logica strutturale al di qua dell’ascolto; si rifanno all’idea di devianza, com’è espresso nella fisica epicurea, ovvero nel loro assunto di base si riferiscono alla deviazione di certi atomi che possono incontrarsi e aggrupparsi. Difatti le opere si costituiscono per aggregazioni e disaggregazioni, esprimendo una sonorità al limite, una sorta di deformazione del suono strumentale, suono bruto fra il primitivo e l’avvenieristico”.
La fortuna del mio primo Klinamen nasce a Venezia nel 1981. C’era già stato un riconoscimento a Parma al Premio intitolato a Enzo Muccetti, ma qui la platea era diversa. L’approdo veneziano era anche il riconoscimento di cinque compositori tra i più prestigiosi in Italia coordinati da Luigi Nono che avevano dato vita all’iniziativa di Venezia Opera Prima voluta dall’allora appena nominato sovrintendente Italo Gomez; quindici giorni di laboratorio e di discussioni intorno alle opere prescelte di giovani compositori italiani e poi le esecuzioni a La Fenice negli spazi delle Sale Apollinee. Con l’Orchestra diretta da Antonello Allemandi, la parte solistica fu da me affidata ad un giovane preparatissimo fagottista come Alberto Belli, chiamato “d’urgenza” per affrontare una parte molto esposta alle tecniche sperimentali; gli studi sui suoni multipli e sulle innumerevoli risorse timbriche dello strumento di cui proprio Muccetti era stato antesignano, non erano familiari agli esecutori dell’epoca e richiedevano uno strumentista ad hoc. La manifestazione fu molto seguita da critici e giornalisti dei principali quotidiani nazionali e anche del mio brano ci si occupò nello specifico (tra gli altri Marcello Conati, Piero Mioli, Ivano Sartori, Guido Baggiani, Mariagrazia Borazzo, ecc…) anche in occasione di altre esecuzioni da parte dell’Orchestra “Toscanini” diretta da Stefano Rabaglia con Franco Fusi nella parte di solista (sei repliche nel 1983), dall’Orchestra Sinfonica di Udine diretta da Daniele Zanettovich con Alberto Belli fagottista (1994) e dall’Orchestra dell’Arena di Verona diretta da Giuseppe Garbarino (1996).
Degli altri klinamen, il secondo per flauto e chitarra e il quinto per quattro percussioni hanno avuto numerosissime repliche non solo per la maggiore agibilità d’esecuzione ma anche perché legati, almeno inizialmente, agli strumentisti coi quali lavoravo: il duo Ferrarini-Piastra portarono il secondo klinamen nei loro concerti un po’ in tutto il mondo, mentre il Quartetto Percussioni di Parma (Grassi, Ubaldi, Rossini, Innocente) realizzarono parecchi concerti in Italia e con questo brano si affermarono anche al Concorso di Stresa del 1982. Ma come si è visto la storia non finisce qui. Casualmente realizzata nel 2003 la versione elettronica (7) uscita dal missaggio dei tre brani registrati e la voglia di riprendere questo discorso produce uno Studio coreografico n.1 sui klinamen per ottavino dal vivo ed elettronica che la flautista Luisa Sello inserisce nel suo affascinante spettacolo Pierrot solaire (un altro work in progress) e lo Studio n. 2 per viola ed elettronica che Maurizio Barbetti esegue normalmente nei suoi concerti di musica contemporanea. Riagganciato ulteriormente al nuovo spettacolo, di cui ci occuperemo poi, Piena apparve la Luna, sul finire degli Anni Zero (si chiamano così?), i miei klinamen trovano nella realizzazione coreografica una nuova vita nel 2010.
IL RAPPORTO CON LA POESIA
Ecco l’altra faccia della conoscenza. “Non si capiranno mai bene le vere ragioni per cui la musica cerca la poesia. O, forse, le risposte sono fin troppe perché una sola possa soddisfarci”. Così Guido Salvetti apre il suo contributo apparso su La Rassegna Sovietica (8) sulla mia collaborazione con Evelina Schatz, poetessa di Odessa emigrata a Milano, che all’inizio degli Anni Ottanta aprì indubbiamente il mio immaginario già stanco dei pochi anni coltivati a rincorrere le Avanguardie. Che tristezza pensare in termini neutri, all’autonegazione, a strutture autoreferenziali; dover spiegare con l’Analisi quel che si scrive per motivare l’obbligo di ascolto; dover giustificare il compositore “deresponsabilizzato” e ancor più un pubblico refrattario e adagiato sull’alibi della propria dichiarata ‘incompetenza’. Del resto, si sa, il valore di un’opera prescinde spesso dalla forza delle teorizzazioni. E infatti amo Donatoni, ben oltre la testimonianza. Ma “con la poesia di Evelina Schatz è risuccessa questa strana cosa” ancora per Guido Salvetti “il musicista Andrea Talmelli l’ha cercata con assiduità, per anni, e vi ha costruito una parte della propria traiettoria compositiva”. La musica è parte essenziale dell'immaginario poetico di Evelina. Musicale é il suo verso, vibrante il gesto della sua recitazione da quando si esibisce, già negli Anni Settanta, nei salotti letterari di Milano o altrove. “La sua poesia è già polifonia di durate, dice Guido Salvetti, ora minimali, ora dilatate fino alla vertigine; non ha bisogno della musica per questa sua dimensione; ma con la musica quella polifonia di durate acquista una possibilità ulteriore di verifica (e di evidenza)”. La poesia nasce dunque e spesso in un clima di intensa complicità con l'evento musicale. Come a Parma con il mio Nini muart , a Chiasso (Verticale Eco ), nel Duomo di Fidenza (Come Odisseo di Osip ). La sua lezione di complicità è anzi contaminante. E allora mi cimento io stesso durante un suo recital al Portnoy letterario, in un disegno estemporaneo raccolto insieme ad altri 21, per le sue Lettere d'inverno. I compositori, è stato scritto, la seguono e la cercano, in Italia, in Russia. Ho conosciuto il fiorentino Mario Ruffini e ascoltato il suo Immotus insieme alla mia Samarkanda a Leningrado sul finire del 1990 in un concerto programmato dalla Casa dei Compositori e dal Teatro Ermitage. Ho apprezzato Igor Rogalev, Kyril Volkov, Sergej Slonimskij, tra i più interessanti autori russi contemporanei. Alcune tracce del loro pensiero, costruite su un solido (neo)classicismo, sperimentano strade di nuova drammaturgia aperte, come nella lirica di Slonimskij, alle vie dell' oriente estremo. Ma traspare soprattutto l'attaccamento alle radici etniche, del canto popolare. Nelle liriche di Volkov questo pensiero è kornevoj , tradotto in suono essenziale e più ermetico; nel trittico Addio di Rogalev assume invece venature di disarmante ironia. Ma nelle più estese sollecitazioni musicali della poesia il canto popolare è anche presente, in forma più diretta e immediata, nelle ballate e romanze "urbane" di Larissa Grigor'eva o nelle canzoni degli italiani Vincenzo Lo Iacono e Federico Cerati. “Aromi e spezie, scrive Eugenio Vitarelli per Tamburi di Sicilia , sono nei versi di Evelina Schatz, viaggiatrice che viene da lontano.” “E il compositore, riferisce Renzo Cresti, esce dall'arrogante torre d'avorio e si concede, non arrossendo di fronte ai bisogni espressivi, per una nuova retorica che non rinnega affatto la razionalità, ma sprigiona una forte carica immaginifica che illumina un fantastico viaggio nel tempo/spazio; una fantasia liberata.” La nostra Samarkanda viaggiò. Da Milano a Firenze e Siracusa, dalla Russia al Canada e all'India. Biblioteca viaggiò, come scrive Evelina nella Catottromanzia. Viaggiò. In valigia gli autografi di Ugo Ronfani e Jurij Nagibin, i disegni di Lucio Del Pezzo, Fausta Squattriti, Ariel Soulé, il carteggio di Marzio Pieri, i saggi di Lina Angioletti, Lina Sotis, Carlo Franza per citare solo alcuni nomi e il mio ricordo. Fu Marcello Conati a presentarmi a Evelina, poetessa di Odessa che viveva a Milano e che cercava un giovane compositore con il quale realizzare l’operina Elisavieta Bum dello scrittore dell’assurdo Daniil Kharms. L’operina rimase incompiuta (a parte il Prologo per violino solo del 1983, più volte eseguito da Enzo Porta e Georg Monch), ma in compenso un pirotecnico scenario di progetti compositivi e multimediali partirono su più fronti in un gioco di scatole cinesi incredibilmente collegate. Io scrivevo musica sui versi di Evelina e lei scriveva poesie ascoltando la mia musica sui suoi versi….
… A Samarkanda il giorno della bastiglia si parte per la luna spazio amletico e talmelliano
(da Invito in Villa, 14 luglio 1986, ma forse il giorno dopo, Milano, Villa Reale)
Con Samarkanda, o libro delle cerimonie (1985-86) su poesie e per la regia di Evelina Schatz, si realizzò lo spettacolo per il Salone Pier Lombardo nei Giardini di Villa Palestro a Milano grazie al duo pianistico Franco-Guarino , ai percussionisti Grassi-Rossini, al duo flauto e chitarra Ferrarini-Piastra, al canto affidato a Roberta Quartieri e alla recitazione di Dario Manera. In seguito fu eseguito anche a Parma e Siracusa e in forma di concerto a Vancouver, Firenze e a S.Pietrobugo dove sono stato invitato dall’Associazione dei Compositori russi. Numerosissime inoltre le esecuzioni dei singoli brani inseriti in diversi contesti concertistici.
Con la Schatz ho realizzato altri progetti compositivi e spettacoli teatrali o multimediali: Tamburi di Sicilia, Diario londinese, Canzone di Ofelia, il ciclo sul Nero (…e quell’unica strada era il Nero, Variazioni sul Nero, Come Odisseo di Osip) il trittico su Ultimo tango, Salomè, Capriccio veneziano (realizzato dalla casa dell’Attore di Mosca nel 2005), Miracoli del mercato del pesce. Numerosi anche gli interventi musicali e letterari insieme con Evelina in importanti Librerie (da Battei a Parma, Libreria Tikkun, alla Associazione Italia-URSS e poi Italia-Russia a Milano) e Musei (al Rimski Korsakof di Leningrado al Museo della Scala a Milano o della Stampa a Piacenza) oppure in spazi culturali prevalentemente milanesi (da Angioletta Miroglio, Quinto Cortile, Spazio Vetro da Sabino Ventura, Portnoy Caffè Letterario, ecc). Per il cinema abbiamo realizzato le colonne sonore di Donna variante di destino (regia di Vladimir Makedonski) e Colombo e Leonardo (regia di Dmitrij Demin) per la TV di Mosca da cui è tratto anche la suite per orchestra d’archi Frammenti di Lesbo; e la “sinfonia russa” Dalla verticale al paesaggio pitagorico delle lontananze, commissionata dall’OSER di Parma ma prima registrata dall’Orchestra Mosfilm di Mosca (1991) per la direzione di Yuri Nikolajevski.
“A qualcuno, sofferente pare la musica vicina ad estinguersi. Ma ecco ribellione, sovversione, resistenza, insomma. Andrea Talmelli va a Mosca e in tre giorni la sua Sinfonia per l’OSER si sveglia –terra addormentata- vive e vibra, si riempie di spazio, di respiro di cavalli, di luce nevosa, di luna che se n’è andata ma è rimasto il chiarore….” Evelina Schatz (9) Ora, qui si parla di poesie, di Samarkande (è sempre stato impressionante per me l’Umberto Eco che evoca suggestioni di ..un uomo venuto da Bassora!), ma anche di colori e di disegni, e infatti impattai in quel periodo Lucio del Pezzo e Piero Crida, il pittore Alvaro e Fausta Squatriti, compositori russi come Volkov e l’editore Giorgio Taborelli, e tanti altri amici di piccoli cenacoli pittorico-musicali-letterari, secondo classico copione di civiltà. Il riflesso dell’ambiente milanese su Parma portò non soltanto a pubblicare l’autografo della prima lirica nel bel volume Parma Capitale della Musica a cura di Claudio Gallico ma anche a replicare Samarkanda nei Chiostri di S.Uldarico (1990) per la stagione estiva dei concerti della Cooperativa Pezzani, con un piccolo convegno di presentazione cui parteciparono tra gli altri gli stessi Marcello Conati e Guido Salvetti. Le musiche di Samarkanda comprendono dieci liriche per le diverse combinazioni di voce, flauto e chitarra incluse nel bel volume di poesie edito da Soliart, Do-Soul di Milano (1986) con i disegni di Lucio del Pezzo e la grafica di Mauro Olgiati. Queste liriche sono precedute e seguite da un brano per due pianoforti e due percussioni (Verticale Eco e Amleto in una noce). Al centro, a dividere le dieci liriche, venne aggiunto, dopo la prima milanese, un brano per arpa sola, ….e quell’unica strada era il Nero, che aprì a sua volta e come sopra riferito, un’altra scatola cinese, il ciclo sul Nero. Questo brano fu presentato in una iniziativa coordinata da Daniela Bigliardi alla Libreria Battei di Parma da Marzio Pieri intorno al volumetto Atlante delle cerimonie, mentre Gian Paolo Minardi lo descrisse (10) non assecondando il “nero” come spegnimento, perché “ in quel nero continua a brillare il sole di quell’oriente acceso nel cuore, un nero carico di luce” che gli ricordarono la Cote d’Or di Matisse o la luce che Debussy mette talvolta in certi sforzati amplificando “per un attimo il suo segretissimo spasimo”. Scrive Cresti: “La struttura continua ad essere autoregolata da leggi che caratterizzano il sistema come tale, struttura però più dinamica nell’accogliere elementi espressivi dii carattere personale, emotivo, intimistico”. Elementi espressivi sui quali commenta Giorgio Taborelli (10): “Talmelli ha composto una propria musica di lettura maschile , sguardo non troppo goloso dalle serrande dell’harem, un po’ di paura e un’intensa attesa del momento per passare, nel flauto o nella chitarra o nella stessa voce femminile nella capace bisaccia del poeta”. E ancora Guido Salvetti: “anche quando la parola vien detta, la scrittura vocale di Talmelli la depotenzia di comunicatività razionante per polverizzarla in fonemi – ancora una volta – di pura vibrazione spaziale. Allora ritornando a leggere la poesia – edotti dalla musica – crediamo di capirne qualcosa di più: la leggerezza dei nessi, che fa tutt’uno con la preziosità allusiva e multiforme di ogni particella”. Connubio tra parola e suono? Perché dunque la musica cerca la poesia? Nulla a che vedere a mio avviso con la secolare obscura quaestio , spesso attorcigliata intorno a bisogni di supremazie territoriali. Ritengo del resto Goethe troppo intelligente per non saper distinguere Beethoven da Zelter. Allora? Allora per me un testo, inteso anche come pre-testo, significa rubare a una poesia, a una narrazione, a una parola o anche solo a un titolo le magie di uno stimolo, di un’emozione, le suggestioni che sono entrate nell’io profondo. Solo dopo la voglia aiuta il percorso fatto di suoni organizzati, e non importa se quello che interpreta il compositore è ciò che ha detto il poeta (ma cosa ha detto il Poeta?) o quello che ricreano gli esecutori o, in un processo infinito, gli ascoltatori. Anche il testo è un pretesto e guida persino chi può ricreare con il semplice ascolto, come fa il pubblico quando applaude sé stesso che si riconosce nell’opera. Sì. Riconoscersi nell’opera, anche se ormai è un condominio. Questo vale. A qualcun altro, se vuole, il difficile compito di spiegare un pretesto.
Ecco dunque l’altra faccia della conoscenza. Qui estendo il termine di poesia alla letteratura in genere, ai testi letterari. Ho scritto moltissimo in questo senso. Per me il “testo” è dunque un “pretesto” perché guida l’immaginazione e introduce idee musicali. Sull’esperienza maturata insieme a Evelina Schatz mi sono mosso sempre con maggior insistenza dalla fine degli Anni Novanta anche verso altri Autori. Si tratti di unire la voce al suono strumentale, ovvero di scrivere musica sulla recitazione di un testo o anche solo di un titolo o di un’immagine, si può forse dire : in principio erant….insomma precedono i testi! Ho scritto per il teatro Pinocchio un miûsicol (1999) su testo di Gianfranco Sgrignoli, realizzato al Teatro Regio di Parma nel 1999 e La strada che non andava in nessun posto, nel 2002, da una favola di Gianni Rodari, più volte replicata anche in progetti didattici. Ma spesso si tratta di un micro teatro date anche le ovvie esigenze di economia realizzativa. Ad esempio Storia di Tawaddud (2005), utilizza tre sole figure femminili in scena: una recitante-danzatrice (Lara Bonvini), una flautista (Annamaria Morini) e una arpista (Paola Perrucci) cui si aggiunge musica elettronica e un’altra voce recitante fuori scena (Uberto Pieroni). “Proporre una favola in musica – scrive nel programma di sala Paola Perrucci , cui devo anche l’ideazione dello spettacolo, è un’operazione quanto mai attuale, lo è ancora di più se appartiene alla grande cultura araba che vede, proprio nella celeberrima raccolta “Le Mille e una notte”, lo specchio di un mondo antico, sensuale ed estremamente affascinante (…) Tawaddud, una donna che, nonostante la propria estrazione di schiava “è la sintesi perfetta di bellezza, intelligenza, conoscenza e devozione. Un omaggio alla bellezza che passa attraverso la strada della conoscenza e della saggezza, dove per conoscenza si intendono le grandi fondamenta della filosofia greca, alla base del mondo arabo e del mondo occidentale”. Lo spettacolo, nato per la Stagione estiva del Teatro Stabile delle Marche, è stato proposto a Lunano, Recanati (casa di Leopardi), al Castello di Sarmato e al Teatro Nazionale di Roma nella stagione 2007 del Teatro dell’Opera. Ma l’occasione di scrivere su testi letterari mi è offerta anche dalla costante partecipazione a Senigallia al Festival Musica Nuova per oltre un decennio. E’ qui che viene presentato regolarmente un poeta o uno scrittore invitando un gruppo abbastanza costante di compositori a scrivere sui suoi testi scelti. Un appuntamento per me estremamente importante da cui sono nate diverse opere: Blu viola, da un racconto di Carlo Lucarelli, per tre recitanti,viola e viola elettrica (2005); ma anche il Notturno per viola (su una leggenda medioevale fiamminga,2001), Io porto alla tua soglia frutti rari (poesia di Maria Luisa Spaziani) per flauto e arpa (2002) recitata nell’occasione sia dalla poetessa che dall’attore Mario Rigillo; La Fata (Umberto Piersanti), per clarinetto, bajan e pianoforte (2004), Carpe diem, (Giuseppe D’Elia) per pianoforte (2005), Cosa pensa lo specchio sul muro? (Dacia Maraini) , per viola (2007); ma anche Jardins au clair du réveil , per marimba e pianoforte, è stato commissionato per il Festival Musica Nuova di Senigallia del 2006 in un concerto speciale dedicato a giovani registi italiani. Il brano è stato composto sul video della regista torinese Elisabella Bernardini “Servizio Giardini”, cortometraggio realizzato per il Festival del Monferrato del 2003, menzione speciale “Globo d’oro” di Roma. Il senso del film è la realizzazione personale e la serenità che si possono raggiungere anche semplicemente come giardiniere di un parco. La trama musicale segue le due distinte sezioni del video affidate ciascuna a un solo protagonista. Il dialogo tra i due strumenti è viceversa mantenuto costante e molto stretto, quasi a fondersi in un unico intreccio ludico, ritmico e timbrico. Sarà solamente la duttilità del materiale intervallare posto a base della composizione a evidenziare i due momenti, gli atteggiamenti psicologici, piegando le suggestioni e le curiosità poste dalle immagini iniziali alla gradevole sorpresa del finale e indugiando in un inconsueto sorriso. Del brano è stata realizzata anche una versione per pianoforte a quattro mani più volte eseguita da me in concerti in duo con la pianista Rossella Spinosa. Questo excursus su musiche scritte per la letteratura non potrebbe non completarsi se non facessi cenno ad alcuni titoli di brani vocali o anche solo strumentali ma ispirati a testi o immagini. Testi per la voce sono quelli di Orlando Calevro (Foschia, 2005), Rilke (Due sonetti, 2001) e Francesca Merloni (Come un vento ho cercato il mare, 2009) mentre brani solo strumentali si ispirano a testi ancora di Calevro e Luca Gobetto (Due Idilli per viola, clarinetto e pianoforte, 2006) di Gilberto Isella (Adiacenti al suono, per clarinetto e contrabbasso, 2007), Hermann Hesse (Gondola per pianoforte, e Farfalla azzurra, per organo, 2006) o il fortunato ciclo da Ti con Zero di Italo Calvino che comprende quattro brani scritti tra il 1994 e il 1996 (La molle luna, L’origine degli uccelli, I cristalli e Il sangue, il mare), talvolta eseguiti in edizione integrale (dal Traiect Ensemble di Sorin Lerescu al Festival di Bralia, Romania, nel 2003), ovvero per singoli brani in numerosi concerti, spesso eseguiti da Icarus Ensemble, in Italia (Palermo, Torino, ecc…) e all’estero (Festival Gaudeamus di Amsterdam, Tribina compositora di Belgrado,…). E ancora il Preludio a Liolà che esegue ripetutamente il chitarrista finlandese Patrik Kleemola, e che nasce su un progetto di musiche di scena per la rappresentazione teatrale del lavoro di Pirandello. Ispirato a un quadro del pittore romano Pier Augusto Breccia è ancora Equazione a due incognite, per flauto e violino, inserito da David Macculi in un importante progetto collettivo di composizione, portato in tutta Europa e in Giappone. Curiosa è invece l’origine dell’Albero delle poesie del mare, per duo di fisarmoniche, del 2008, con cui ritorno in qualche modo anche alla collaborazione di Evelina Schatz. Ci trovavamo a Mazara del Vallo per realizzare il concerto per due pianoforti e percussioni, con una prima esecuzione del Miracoli del mercato del pesce. Questo concerto era collegato a mostre curate dalla Schatz con le istallazioni di Francesco Cucci. Un bellissimo albero di fronte al mare di Sicilia era vestito di lastre di rame su cui erano incise poesie di Evelina. Io registrai questo suono incredibile offerto dal movimento delle lastre affidato al vento, ma per mia sfortuna cancellai questi suoni registrati su cui avrei voluto in seguito lavorare. Rinunciare? Neanche per idea. Mi rimaneva solo una bella fotografia dell’albero e le suggestioni provate componendo questo brano per il duo DissonAnce di cui fa parte Roberto Caberlotto. Musicista, quest’ultimo che è stato particolarmente legato alla mia produzione per questo strumento, esecutore del trittico sul Tango e della composizione a lui dedicata Cinque super caber l’Otto, per fisarmonica e percussioni, con la quale ho vinto il Premio Fancelli di Terni nel 2003. Ma è ancora con la poetessa di Odessa Evelina Schatz che ritorno agli ultimi progetti qui presentati. Il nostro viaggio nel tempo/spazio tra filosofia e poesia trova qui una sintesi in questo spettacolo. Omaggio alla poesia e alla filosofia antica, Piena apparve la luna riassume la magica atmosfera suscitata dal verso di Saffo, ed è un omaggio anche all’universo, all’origine delle cose della natura e all’uomo che le osserva stupito come stupito osserva in cielo l’Arc-en-ciel dopo una pioggia. Parmenide ed Eraclito, percorsi paralleli, respiro dell’umanità mediterranea, mettono a fuoco, millenni prima, intuizioni e verità perenni. La poesia di Evelina Schatz, tratta dal volumetto edito con il titolo Ballando con Eraclito e completato da sette opere grafiche di Sergio Alberti, esalta l’attualità dei frammenti eraclitei in personale introspezione. L’inserimento del Klinamen elettronico e dello Studio coreografico permette dunque di chiudere un cerchio con un senso quasi kantiano di antinomie consolidate negli interrogativi di un tempo. Il progetto originario nasce per caso a Pavia nel 2008 per quella che avrebbe dovuto essere una “conferenza” sul titolo quasi provocatorio quanto suggestivo “Percorsi paralleli o…l’ordine nel caos” del Festival dei Saperi; si va poi via via precisando e perfezionando nelle realizzazioni di Prato, Reggio Emilia e Sala Baganza del 2009, arricchendosi quindi per il Festival Cinque Giornate di Milano del 2010 dell’apporto di un gruppo di giovani danzatori, su progetto coreografico di Annarita Pozzessere, che ne sperimenta anche sotto il profilo didattico le tante suggestioni. Tra un brano e l’altro vengono recitati da Giuseppe Gaiani alcuni testi da me predisposti anche per favorire il pubblico in questo comune viaggio tra filosofia e poesia. In questo dialogo costante col pensiero antico e con la creatività di oggi, scrive Andrea Parisini (11) nel recensire la conferenza-concerto di Pavia, si dipana dunque un lavoro compositivo che dura da più di trent’anni…. Talmelli precisa che si tratta solo di suggestioni, non di una traduzione, che farebbe violenza alla diversa natura dei linguaggi; una suggestione che mira a cogliere il senso misterioso dell’essere che pervade le cose e che ha ragione delle contraddizioni… Ma proprio da quella dialettica degli opposti un tempo superata nell’ontologia totalizzante della forma perfettamente organizzata Talmelli ha recentemente sviluppato il suo interesse per Eraclito, per l’opposto appunto, con un allargamento della dimensione creativa che si estende al rapporto col testo nel già ricordato e suggestivo intreccio di citazioni (dello stesso Eraclito) e intuizioni poetiche (di Evelina Schatz). Rispetto a una poesia che con giusta pretesa rivendica i suoi spazi di libertà, la musica, che quella poesia lascia sempre intelligibile all’orecchio dell’ascoltatore, procede per analogia, non per commento, in uno spazio multidimensionale in cui entra a far parte, con la voce, anche la coreografia, efficacemente realizzata dalle due esecutrici – Claudia Burlenghi e Loredana Ingegneri – con una lettura che si è apprezzata per puntualità e condivisione di respiro musicale. Al centro, quale sintesi dei diversi atteggiamenti, l’elaborazione sonora di quel concetto di klinamen che, già in Epicureo e Lucrezio, si traduce in Andrea Talmelli in una poetica del molteplice.” Dunque: il bianco è diverso dal nero, ma questo si spiega solo perché li ammettiamo entrambi i colori. Se sostenessimo che esiste un solo colore, chiamarlo bianco o chiamarlo nero in fondo sarebbe la stessa cosa. Il “tutto scorre” c’è perché c’è qualcosa “che permane”. L’ordine ha senso perché c’è il caso. Scorro, quindi sono, …, ci conforta Evelina Schatz nei suoi versi che ripercorrono i concetti (o frammenti poetici…?) di Eraclito. Ma potrebbe mai nascere la curiosità del pensiero se non ne alimentassimo le radici ad esempio con l’energia di un movimento danzato? Insomma, ripetendo la Schatz, “se l’amore tramonta, potrebbe mai nascere il sole, nuovo, ogni giorno?”
LA STRUTTURA CHE CANTA
Siamo così tornati ai due brani eseguiti al Festival 2009 al termine della Giornata di Studi verdiani e al Convegno Torniamo all’antico: sarà un progresso. C’era qualcosa in questo titolo di provocatorio. Eppure la possibile suggestione un pò negativa offerta dal preteso rifugio nel passato, è presto offuscata dall’interpretazione corretta di potersi rapportare all’esperienza del passato per costruire la composizione che guarda al futuro, quindi che può essere innovazione. Volendo riconoscermi nella definizione di Renzo Cresti, credo che la “struttura che canta” possa ben definire gli ambiti di un linguaggio e di una poetica che mi sollecita nello scrivere. Il testo di Hesse si presenta come una piccola foto a colori e di contrasti che ondeggiano tra moto e immoto; un moto tra l’altro quasi impercettibile e un immoto che viceversa si apre a rapidi e profondi sguardi di vita interiore. L’inizio del brano ripete quattro volte la cellula tematica che è alla base della composizione: un gruppo di cinque suoni raggrumati in uno spazio cromatico di terza maggiore, cui la penalizzazione induce a evocare un cluster articolato appena schiarito dal registro medio-alto della tastiera e dallo slancio d’ottava dell’acciaccatura. L’onda lieve ottenuta si ripete nel gesto invertito delle linee sonore delle due mani, quindi nella esatta riproposizione a distanza di tritono che spinge verso colori più aerei. Il brano si presenta dunque come decisamente strutturato sugli intervalli della cellula iniziale Le quattro note d’attacco delle ripetizioni dell’idea formano un circolo ascendente di terze minori corrispondente a un accordo di settima diminuita. La struttura è riconoscibile anche quando l’atmosfera immobile e rarefatta comincia a sciogliersi su lievi mutamenti della pulsazione verso andamenti più snelli e ritmi definiti. Il nero introdotto nel testo poetico a spezzare questo clima di acque increspate su un cielo azzurro e solare, arriva quasi all’improvviso, eppure atteso, e si identifica con le pareti nere della gondola. E’ qui che la profondità del suono grave della mano sinistra appare per la prima volta e segna una distanza incolmabile con il gioco leggero che continua nella destra. L’onda eterna di pace cede al sogno di morte, dolce, strano, e in questo contrasto è anche il contrasto dei colori: il fondo torbido di acque melmose della laguna che si scioglie via via che si sale verso la superficie e oltre, verso un cielo che rimane comunque terso e carico di luce. Le mete sconosciute verso cui traghettano la giovinezza e l’amore che si spegne mantengono tuttavia con i loro enigmi anche quella dolcezza della vita che rimane bella di luce e che si identifica con l’andamento della gondola veneziana. I giochi sviluppati dalla struttura continuano nel contrappunto finale su quattro righi che utilizza tutta la gamma delle sfumature offerte dai registri pianistici e da un attento uso delle pedalizzazioni. Non è tanto importante che il materiale musicale sia tonale, atonale, dodecafonico o altro. La struttura si definisce con l’indagine sul gesto iniziale. Questo accomuna il brano solo strumentale sui versi di Hesse a quello cantato e più esposto ai rischi di un improbabile confronto con la drammaturgia e la vocalità verdiana. Dies irae, dies illa, solvet saeculum in favilla, teste David cum Sibylla. Quantus tremor est futurus
Mentre ballavo il valzer con Verdi La donna è mobile qual piuma al vento una candela bruciava sull’erba, una candela quella banda di Busseto scandiva sciagure la spinetta già scrigno di future rasure Quantus tremor est futurus, quanto terrore verrà ma Viva il Re – Viva Verdi! Va pensiero, e va ero io in alto il coro di ali che fora frontiere e travolge le sorte – simmetrie sonore nell’abisso del nuovo, Dies irae immoto la campagna tracima – calmiere dei fasti dei trionfi in marcia fra le cento bottiglie di fino Bordeaux per svernare in Russia alchimie ambigue, sconfinato trapasso una candela bruciava in asso, una candela Mentre con Verdi ballavo il valzer, ballavo…
Evelina Schatz
Se nel lieve ondeggiare di Gondola possiamo scorgere anche l’incedere lento e solenne sull’acqua col gesto morbido del gondoliere, carezzevole spinta a mani ravvicinate e direzioni opposte in uno spazio così ridotto, in quello verdiano addirittura si potrebbe stabilire il suono generatore di una tonalità di base (mi) appoggiato a distanza abissale dalle due mani, su cui si incunea un ricamo di reminiscenza verdiana accennata in zona media, aperta a una interpretazione armonica di dominante (mi settima) che contrasta all’acuto con l’accelerazione di un’altra reminiscenza sui suoni cadenzali e alternati della “vera” dominante e della vera tonica. Ma il gesto si esaurisce in un attimo con l’inaspettato quarto elemento che taglia con sonorità marcata la scena:il fa naturale precipita dalla sonorità presto gonfiata al silenzio improvviso, togliendo con il pedale anche ogni riverbero.
Citazioni verdiane sono offerte proprio dai versi della poesia. Ci sono nella parola, utilizzata nella vasta gamma del declamato e del cantato richiami al Dies Irae, a La Donna è mobile, al Va pensiero, in un contesto di immagini che ricongiungono il pensiero ottocentesco ai linguaggi della musica contemporanea e al mio modo di comunicare. La citazione latina si apre sul cromatismo del Dies Irae dopo l’introduzione pianistica che indugia sulle evocazioni cadenzali e tonali.
La comparsa del senso strumentale e del declamato melodico nelle opere della maturità verdiana portarono Massimo Mila a riconoscere, tra “tanta pulizia drammatica” e “in tanta intelligente e sobria concisione di linguaggio” come “l’idea musicale di Verdi nasce ora non soltanto sotto forma di pura monodica vocalità, ma complessa e ricca, completa solo nella collaborazione di canto e orchestra” (12). Questa collaborazione può intendersi anche quando è il solo pianoforte che sostituisce l’orchestra, per le possibilità incredibili che lo strumento ha di seguire gli spunti offerti dal testo, ora assecondandolo, ora sostituendosi alla parola recitata o cantata, ora tacendo per lasciarne assaporare le emozioni.
Il testo è ricco di situazioni a tinte forti che si prestano a repentini mutamenti di scena. Richiami di bande risorgimentali, impennate improvvise e ricadute altrettanto rapide, come l’abisso del nuovo che travolge le trovate simmetrie sonore.
Dopo l’eccitazione per i trionfi militari rappresentati con cento bottiglie di fino Bordeaux, tutto ripiega velocemente verso uno sconfinato trapasso dichiarato con voce devitalizzata di ogni precedente energia.
E’ allora del pianoforte il compito di rientrare dal nulla con un gioco tremulo sulla nota di inizio del brano che abbiamo adottato come Tonica.
Questa anticipa la flebile fiamma di una candela già introdotta all’inizio e ripresa sul finale del testo, spia misteriosa e contraltare di un preteso ballo con Verdi che sempre più si allontana dalla realtà e dalla vita, sfocando nel nulla. Ma è poco prima di questa riapparizione della candela, che gli spumeggianti echi del Bordeaux cedono come per un colpo di spugna: ecco allora un flash sullo ‘svernare’ nella fredda Russia, ecco come si rivelano alchimie ambigue. I disegni musicali che contrappuntano i passaggi e i silenzi, piegano la materia musicale e dunque gli elementi intervallari trasformandoli e sottoponendoli a un nuovo processo e a un inaspettato scenario.
L’atmosfera è quella di una scena finale, dall’esito incerto o forse fin troppo definito, i tentativi di rianimarla con l’ostinato desiderio del valzer smotta sotto lo sguardo insistito della candela, l’ambiguità ha introdotto i suoni della scala enigmatica tra riprese sempre più affievolite del tema, fino all’accordo pre-conclusivo su cui si ferma il pianoforte raccogliendo in un sol suono tutti quelli della verdiana scala dell’ Ave Maria.
La Coda è affidata a uno stentato ba..lla...vo pronunciato dalla voce senza più mente e convinzione, cui risponde quasi impertinente il ricamo arpeggiato della prima sulla citazione della candela, ancora sull’eco di ricordi lontani de La donna è mobile.
La struttura che canta riappacifica dopo anni di pretese ideologiche, di amputazioni subite dal comporre di uno dei suoi elementi essenziali. Come si potesse amputare il cervello di uno dei due emisferi. Le logiche che presiedono alla composizione si affidano certo a momenti di calcolo e di speculazione sulle idee che la guidano, ma è la fantasia liberata che alla fine detta la trama e i ritmi stessi della composizione. E l’impressione è che le due cose si confondano senza più possibilità di separazione, così come avviene per una complessa fusione chimica. Come tra ordine e caos, come tra determinato e indeterminato, tra l’ “ente immobile” e il “ ….tutto scorre”.
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[edit]Note: 1. Renzo Cresti: Andrea Talmelli, La struttura che canta, Linguaggi della musica contemporanea, , pag.117-130, Guido Miano Editore Milano 1994. Dello stesso Autore tra i diversi testi, cfr. Verso il Duemila, Il Grandevetro, 1990 2. Alessandra Fontanesi, SQEUU, Intervista ad Andrea Talmelli, Istoreco, RS Ricerche Storiche, n.108, ottobre 2009, pag. 150-160 3. dal programma di sala del concerto del 24 gennaio 2010 al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia 4. Renzo Cresti: Andrea Talmelli, La struttura che canta, cit, pag 121 5. Robert Gorgon è stato studente in Erasmus a Reggio Emilia e al master da me tenuto all’Accademia di Bydgoszcz. 6. Guido Salvetti, dal programma radiofonico Cluster di Osvaldo Tritten, Radio Svizzera Italiana 1988 7. la versione elettronica di Klinamen è inclusa nel CD monografico Viaggio nel Tempo-Spazio, Idyllium Milano 2005 8. Guido Salvetti, Musica e Poesia, da Evelina Schatz, ovvero alle radici del rito, La Rassegna sovietica 1987. Contiene saggi di Sebastiano Addamo, Lina Angioletti, Giorgio Taborelli, Carlo Franza 9. Evelina Schatz, Poeta in ascolto, post-scriptum, da Andrea Talmelli, Quaderni di Octandre n. 3 /1993. Altri contributi di Guido Baggiani, Renzo Cresti, Guido Salvetti, Pierpaolo Venier 10. Giampaolo Minardi, recensione, in Gazzetta di Parma del 25 ottobre 1988 11. Andrea Parisini, recensione, in L’Informazione di Reggio del 16 settembre 2008 12. Massimo Mila, L’arte di Verdi, ed. Einaudi 1980, pag.73